Monochrome

danielelocchi
00venerdì 28 luglio 2006 18:12
Monochrome

La prima volta che lo vidi, non mi fece una grande impressione. Era nella pubblicità televisiva di una nuova auto. All’inizio, pensai ad un problema del mio monitor. La voce fuori campo esaltava le qualità della vettura; sul video scorrevano le immagini del prototipo che sfilava lungo le strade di New York. Fin lì, tutto normale. Solo che mentre i muri, i taxi, i grattacieli e i vestiti formavano il consueto caleidoscopico ambiente, lei, la macchina, aveva quello strano colore. Già chiamarlo colore era azzardato. Un miscuglio di toni chiari-opachi, che non ti dava la possibilità di definirli con esattezza. Grigio, avana, verdastro, giallognolo, beige…. nessuno di questi era prevalente. Parevano affiorare, ora l’uno ora l’altro, come in un sogno triste, pesante e greve. Una coperta ottica.
Nei mesi che seguirono, piano piano, le cose cominciarono a prendere una brutta piega. Dapprima furono i presentatori televisivi, gli annunciatori, le stelline dei varietà di primo e second’ordine, e perfino qualche ministro, a farsi riprendere vestiti di quell’annullo cromatico. Lo facevano così, quasi senza dare ad intendere che vi potesse essere una scelta precisa dietro al loro nuovo look. La casualità come grimaldello. Ogni giorno, il numero di queste macchie aumentava sullo schermo. Finalmente, qualcuno notò tutto questo, e lo scrisse su uno dei maggiori quotidiani. Ricordo ancora il titolo, “La moda del non”. L’articolo descriveva con dovizia di particolari, molto più accuratamente di quanto io riesca a fare adesso, l’escalation del non colore, come appunto lo chiamava, in tutti i settori della comunicazione. Lo faceva ponendosi delle domande inquietanti. Chi lo ha inventato? Perché nessuno ne parla? E’ un colore o un non colore?
L’articolo smosse un po’ le acque. Nei giorni seguenti, alcuni tuttologi disquisirono e discettarono su moda e non moda, arte e non arte, eccetera. Finché l’enorme magma del tutto nel nulla inghiottì il problema e il giornalista. Non vidi più la sua firma, né su quel giornale, né su altri. La cosa mi colpì, ma, come al solito, neanche più di tanto. A quel tempo ero ancora nella fase del “cosa vuoi che sia….”
Intanto, fuori dalla mia apatica rassegnazione al tran tran quotidiano, la cosa progrediva. Più o meno dopo un anno, all’epoca dei saldi, improvvisamente, in tutti i negozi, si fosse trattato di una mesticheria come di una boutique d’avanguardia, comparvero i primi elementi decolorati. Erano insieme agli altri, così che, guardando in una qualsiasi vetrina, potevi notare queste macchie che si confondevano con l’universo cromatico degli oggetti in esposizione. Non furono accolti con grande successo, anzi. Il più delle volte, proprio a causa della loro indefinitezza, rimanevano lì, invenduti, mentre la gente continuava ad accapigliarsi per un rosa fucsia o un’acquamarina. Tirai un sospiro di sollievo. Avevano sbagliato qualcosa, pensai. Errore. Era già tutto previsto.
Infatti, mentre quest’opacità faceva capolino ormai da ogni vetrina, ebbe inizio la campagna vera e propria. Cominciarono con qualche talk show. Alcuni personaggi “carismatici” iniziarono a dire che il variopinto era fuori moda, passato, retaggio di un mondo diviso e oscurantista. I più aggressivi, i trascinatori dell’audience, i pretoriani dell’urlo, usarono termini più pesanti. “Il colore è divisione, conservazione, razzismo!!!” tuonarono dai loro megacannoni catodici. Se non altro, riuscirono a scatenare una reazione orgogliosa da parte di quelli che come me, amavano ancora domandarsi la mattina se quella cravatta fosse o no intonata alla camicia. Seguirono appassionati dibattiti su quotidiani, riviste di moda, canali televisivi. Gli artisti scesero in piazza, marciando compatti in difesa della libertà di colore. Molti noti personaggi si schierarono apertamente a nostro favore. Ancora una volta, ebbi la sensazione che non ce l’avrebbero fatta. Errore.
Non eravamo noi l’obbiettivo. Quando l’ho capito, era ormai troppo tardi. Loro guardavano molto più avanti di noi. Ai nostri figli, ai nostri nipoti. L’industria di lì a poco, mentre infuriava la polemica, cominciò a sfornare un’interminabile serie di videogames nei quali protagonisti, vincitori e premi avevano un solo unico trait d’union: quel maledettissimo colore, o non colore, o decolore, o come cavolo volete chiamarlo. Gli eroi e le eroine dei cartoni animati, idem con patatine. Quando mio figlio se ne uscì con “lo voglio anch’io l’Invicta Decolòr”, resistetti per una settimana e mezza. Poi, come tanti altri padri, dovetti cedere. Non c’è partita, lo sapete bene. Se gli dite di no, lo avrete come nemico per i prossimi cinquant’anni. Troppi, per un padre emotivo, apprensivo e disperatamente innamorato di suo figlio come il sottoscritto.
Ci rovesciarono addosso la protesta giovanile. Quella dell’adolescenza, una miccia a filo corto che si accende ad ogni pretesto. Diventammo gli adulti prevaricatori. Alla tv, i processi alle famiglie oppressive conquistarono la prima serata. Il non colore era diventato la bandiera delle nuove generazioni. Eravamo alle corde. L’attacco finale fu sferrato a quel punto. Ignoti sottosegretari dal viso decolorato fecero passare in parlamento una legge a difesa dell’infanzia, dove si prescriveva l’uso del non colore in tutti gli edifici pubblici, in special modo ospedali, in particolare nei reparti maternità e nursery. La motivazione tecnica fu che alcuni luminari della scienza medica avevano “scoperto” la tossicità psicologica per i neonati dei colori variopinti, la pericolosità per gli stessi della non uniformità cromatica dell’ambiente, giungendo fino ad imporre che anche camici e uniformi del personale addetto fossero decolorati. Ben presto, il colore venne abolito in ogni ambiente a rischio, ovverosia dove fosse prevista la presenza del neonato.
Di conseguenza, le industrie fornitrici di materiale per l’infanzia cominciarono a sfornare unicamente tutine, culle e lettini decolorati. Tutto, piano piano prese ad assumere quell’aria triste, asettica, grigiastra. Mia moglie ed io resistemmo a lungo ad indossare e a far indossare al nostro secondo figlio golf verdi, camicie gialle, pantaloni blu. Ma intanto, tutto intorno a noi, i colori svanivano. Cominciai a sentirmi a disagio perfino all’uscita dell’asilo. Decine e decine di bambini e genitori “regolari”, e io e mio figlio. Due pesci, rossi, fuor d’acqua. Tutto intorno, sguardi, commenti, disagi. Fosse stato per me, avrei continuato. Ma lui piangeva un giorno sì e l’altro pure. Alla fine dovemmo decidere. O l’asilo o il colore. E fu l’inizio della fine.
Loro, con la calma dei forti, con la pazienza di chi sa che non può che vincere, attendevano in silenzio. Aspettarono tranquilli che i nostri figli crescessero, mentre, lente ma costanti, le vendite dei prodotti decolorati aumentavano a discapito degli altri prodotti. Così chi faceva macchine, sedie, lenzuoli, abiti, e via dicendo, notò che un prodotto decolor si vendeva meglio e più velocemente. Nacquero i primi Centri Commerciali Decolorati, vere e proprie città dove potevi trovare di tutto al solito, unico, “colore”. Sulle prime, affiancarono i normali drugstore. Poi li “stesero”.
“Da noi quel che conta è la sostanza! L’unicolor garantisce il confronto! A parità di decolor, vince la qualità, eccetera, eccetera….”Chi per un motivo, chi per un altro, chi perché stanco di scegliere, chi perché “mi ricorda tanto la mia cameretta”, chi perché “non so come, ma da quando l’ho comprato mi sento meglio, più tranquillo, rilassato”, prima o poi, tutti comprarono decolor. E l’invasione fu completata. La vittoria schiacciante.

E ora sono qua, che aspetto che arrivino. Busseranno alla mia porta. Magari, prima mi faranno telefonare da mio figlio, il maggiore, della serie “Ti voglio bene, papà, perché non ne parliamo insieme?” Oppure dal mio dottore. “Su, non faccia il bambino, la smetta. Alla sua età queste cose possono essere pericolose. Prenda una dose di Annullòn e apra la porta. Possiamo parlarne, se crede. Quando la rilasceranno (vedrà che sarà molto prima di quanto lei creda) passi da me.” Verranno a prendermi, piano piano, con la solita, maledetta calma. E mi troveranno, qui, davanti a questo computer decolorato, in questa stanza decolorata, con la faccia decolorata per l’imminente collasso. Ma quando arriveranno ad aprirmi la mano, troveranno la foto.

Io, lei, un campo di viole e una maglietta rossa.

Come quella bandiera che sventola, impavida, dal mio davanzale.




lemieparole
00lunedì 21 agosto 2006 10:28
ciao daniele, mi è piaciuto molto...mi piace il tuo modo di raccontare...
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